The Protector – La legge del Muay Thai

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The Protector - La legge del Muay Thai“Tom Yun Goong” è un ristorante di Sidney nel film, e un piatto thailandese nella realtà, ossia un colpo (di box thai) al cerchio e uno alla botte (piena) e moglie ubriaca. Non si può che riassumere che così il sequel ideale, ma non ufficiale, di quel caso cinematografico che fu Ong Bak; nonostante tutto il film riesce ad essere anni luce indietro. Non tanto per le aspettative deluse (il film alla fine si risolve in due ore di continue coreografie marziali ottime e perfette) quanto per la morale dietro e per l’assurdità base del progetto. Per vendere un film all’estero si deve per forza snaturare l’essenza dello stesso in questo modo? D’altronde Besson mettendo mano al film precedente non aveva fatto altro che smussare leggermente la grezzaggine sita nelle retrovie della post produzione. Qui invece ci troviamo in un perfetto lavoretto incartato per il cinema –o forse pure peggio per la tv USA- girato e montato come il peggior film statunitense di Italia Uno, parlato per metà in inglese (per metà non parlato e per il resto in cinese), ambientato per ¾ a Sidney. Un orrore insomma. Perché, e ci ripetiamo, perché con dei talenti marziali simili ci si deve ridurre a comporre un film d’azione goffo e imbolsito come quelli statunitensi? D’altronde la morale organizzativa per la messa in scena dello spettacolo è pari a quella di Matrix 2, ossia il nulla pneumatico che sottende al susseguirsi di situazioni d’azione senza un minimo interesse nel raccordo narrativo degli stessi blocchi. A questo punto perché sprecare pellicola? Nessuno nega le abilità marziali di Tony Jaa, ma allora mettetelo in un circo così lo andiamo a vedere dal vivo. Questo non è cinema, è spazzatura.
Immorale è la fretta degli snodi narrativi dei film action thai di questo tipo, che sacrificano qualsiasi personaggio/sentimento/elemento al solo fine di giustificare la violenza e la messa in scena spettacolare, qui come in Born to Fight, riducendo film tutto sommato anche piacevoli in dei porno dell’azione, degli snuff morali.
Orribile la regia e il montaggio che toglie ritmo, respiro, frammenta quando l’abilità degli atleti è innegabile e ha bisogno di una regia capace dietro nonché di un operatore che riesca a seguire i loro movimenti. Praticamente inutili le performance attoriali del bravo Mum Jokmok (The Bodyguard) e della bellissima Bongkoj Khongmalai già vista in Bang Rajan; il resto sono facce, non c’è recitazione.
Focalizzata la delusione bisogna però fare dei distinguo. Che cosa c’è di salvabile nel film? Poche cose:

Tony Jaa e un operatore steady. Il montaggio e la regia sono spesso imbarazzanti, smontano e interrompono le performance degli atleti (non attori, atleti) rovinando la fruibilità delle sequenze d’azione. E questo è grave. Nella tanto citata sequenza dei motoscafi (speculare a quella di Ong Bak) si fatica a capire le dinamiche della scena, quello che conta è solo l’effetto. In due sequenze però il regista si illumina e decide di lasciare lavorare l’atleta e di coordinare una steadycam dietro di  lui. Quello che esce fuori è una scena ottima e una storica, da scrivere nei libri. Nella prima, ambientata in un deposito di tram, Tony Jaa affronta un manipolo di bulli, poi un esercito di pattinatori, ciclisti acrobatici e autisti di uno strano mezzo a quattro ruote infilandosi in ogni pertugio che un tram può regalare, senza stacchi e con un’abilità magistrale.
La seconda è uno dei più grandi piani sequenza della storia; sempre Tony Jaa entra in un nascondiglio segreto dei villains, e percorre 5 piani di un palazzo affrontando decine di nemici e il tutto senza stacchi di macchina per quattro intensissimi minuti. La cosa straordinaria è che percorre una sorta di balconata che scorre intorno all’interno del palazzo quindi senza possibilità di barare, visto che tutto quello che accade sullo sfondo rimane in campo, dalle decine di comparse che urlano e fuggono, ai corpi che restano a terra, all’ingresso e uscita di campo degli attori, che lanciano oggetti, distruggono suppellettili, mentre il protagonista penetra anche in varie stanze di ogni piano interagendo in modalità affatto semplice e imprevedibile con le scenografie. La sequenza è straordinaria e non si vedeva un lavoro del genere dai tempi di Hard Boiled di John Woo (inutile citare lo straordinario piano sequenza iniziale di Breaking News, questo è tutta un’altra cosa). Immaginiamo la difficoltà di organizzare e gestire la scena e la fatica fisica per l’attore che sul finale si presenta evidentemente un po’ provato. L’effetto assume un’evidente estetica da videogioco, senza intenti critici in questo caso.
Comparse. Una simpatica di cui si sono accorti in pochi, ossia un rapido passaggio sullo sfondo di Pumwaree Yodkamol, la co-protagonista di Ong Bak e di The Bodyguard. L’altra, anche questa storica, di Jackie Chan. Nell’aereoporto di Sidney, quando Tony Jaa arriva, si scontra con Jackie che se ne va. I due si guardano con rispetto e si separano. Evidente l’allusione ad un ideale passaggio di testimone. Peccato non si tratti di Chan ma di un sosia. A che pro?
Il finale in cui le leggi della logica mantenute vagamente fino a quel momento vanno a farsi benedire trasformando il film in una surreale royal rumble di mezz’ora tra il povero Tony Jaa e nell’ordine: un atleta che pratica la capoeira (che ci sta come i cavoli a merenda), un atleta armato di sciabola, quattro giganti occidentali, un buon centinaio di guerrieri nerovestiti, un trans armato di frusta e dardi.
Servono a salvare il film? No, il film è e rimane una schifezza, per favore date a Tony Jaa uno sceneggiatore e un regista degno.

 

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