Gun & Rose

Voto dell'autore: 4/5
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Gun & RoseMa chi è il genio sregolato che ha montato questo film? E cosa aveva in testa Wai Ka-fai (sceneggiatore e braccio destro di Johnnie To, v. intervista) quando lo ha scritto? Fosse uscito in Europa un film del genere, colpito dai parametri di analisi occidentali sarebbe stato definito senza mezzi termini con una sola parola: una merda. Fortunatamente ad Hong Kong si ragiona in modo diverso (e più libero) e non ci vergogniamo affatto a definire questo film pura avanguardia, un manuale di cinema-oltre, da studiare in tutte le università di cinema, nel bene o nel male.
Tutta l’attenzione critica si focalizza sul montaggio (e sul linguaggio) quasi impossibile da descrivere a parole. Per fare un paragone assai azzardato si può tirare in ballo il Sin City di Rodriguez e Miller. Quel film aveva il difetto (perché in quel caso era un difetto) di avere un montaggio serrato e privo di quelle pause narrative obbligatorie e funzionali per dare il ritmo del respiro e un afflato epico alla storia. A prescindere dal risultato finale del film, questo approccio era dovuto sia al fatto di dover condensare ben tre volumi del fumetto in un solo film (scelta personalmente assai discutibile) sia al tentativo assai interessante di seguire nella messa in scena la scansione narrativa delle tavole del fumetto in modalità fedele. Nonostante tutto, Sin City non perdeva mai la fluidità e correttezza nei raccordi, nella continuità “locale”, nella coerenza del racconto. Gun & Rose va anni luce oltre estremizzandosi in maniera quasi incredibile. Una storia che sarebbe potuta durare quasi due ore viene condensata in appena mezz’ora, tanto da necessitare l’introduzione di una seconda sottotrama e di uno stormo di personaggi aggiuntivi tra cui un antipaticissimo Andy Lau, un indecifrabile Leon Lai e altri visi belli e interessanti, da Loletta Lee a Carrie Ng (vestita come in Naked Killer).
Il montaggio taglia, sminuzza, interrompe, spezza continuamente appena è terminato il fotogramma che contiene informazioni immediate. Viene scartato tutto il resto, via i piani d’ascolto, una reazione, un silenzio, un totale. Senza limiti si salta da una location all’altra, da un piano all’altro, da una scena all’altra senza un minimo passaggio rassicurante, un continuo montaggio dei contrasti, stimoli continui. La storia si presta e sembra costruita per favorire tutto questo caos. Senza rimorso, senza pause di riflessione. Due persone parlano? – stacco – sempre lì ma dieci giorni dopo, -stacco- uno entra, spara con un mitragliatore, uccide un po’ di gente e se ne va. Continuo, instancabile, imprevedibile, un immenso senso di fretta e furia narrativa, una storia raccontata in modo accelerato.Ma distinguiamo bene questo film da –per fare un esempio- un Wong Jing fatto di stacchi per dare dinamismo, finezza e desiderio di accumulo. Qui è epilessia, fretta, il che genera una strana reazione e coinvolgimento. Le coreografie balistiche oltre al fatto di essere estremamente violente seguono la stessa morale. Continua deframmentazione dei raccordi, incomprensione delle dinamiche dell’evento, continui stacchi in asse senza variazione di quadro per costruire l’evento, accumulo e chiasso visivo di corpi in movimento, esplosioni, cavi, funi, stoffe, visi contratti. Cosa è accaduto si intuisce solo (forse) alla fine dello scontro guardando chi è ancora in piedi e chi no. Un’esperienza di cinema davvero unica, cose che purtroppo sono accadute solo ad Hong Kong e solo da fine anni ’80 a inizi ’90.
Un’altra fetta di Hong Kong scende in campo. Ricordate Wanchai in Crazy n’ the City e Mongkok in One Nite in Mongkok? Ora tocca a Stanley, sud dell’isola, località turistica sul mare, ricettacolo di ristorantini e bar frizzanti. Ma prima si parte da Taiwan, dove domina una famiglia di triadosi. Il vecchio padre, Lung Yat-fun ha tre figli, Simon (Simon Yam), Bowie (Bowie Lam) e l’adottivo Alan (Alan Mak). Come si può notare questo è uno di quei film in cui i personaggi hanno gli stessi nomi degli attori che li interpretano, elemento non raro nel cinema di Hong Kong. Violenti, spietati, entrano in crisi dopo un attentato che ferisce gravemente il vecchio boss, salvato in extremis da una donazione di sangue fatta da un’infermiera, Monica (Monica Chan) di cui si innamora Alan. Alan e Monica si sposano, lui decide di lasciare l’attività  triadosa e di trasferirsi con la donna ad Hong Kong ma lei viene ferita in una sparatoria e rimane invalida. Nel frattempo la storia un pò confusa mostra Simon Yam uccidere il padre e tramite l’aiuto di Leon (Leon Lai), un uomo a cui era legato per la vita a causa di un vecchio debito, anche il fratello, divenendo la nemesi di Alan. Nel frattempo Alan che ha trovato lavoro a Stanley si trova coinvolto in una guerra tra gang spacciatrici di droga, una delle quali ruota intorno ad un localino di Carrie (Carrie Ng), sorella di Andy (Andy Lau), boss malavitoso dall’atteggiamento fastidiosamente cool, perennemente seguito dalla propria ragazza Loletta (Loletta Lee). Alan tenterà di occultare la sua forza e violenza, subendo numerose angherie fino al finale dove suo malgrado sarà costretto a ritornare nel suo ruolo di boss per battersi contro il suo stesso fratello.
Uomo interessante Alan Tam, attore sbarazzino in quel di Taiwan, produttore illuminato (suoi i primi Wong Kar-wai), regista e infine imprenditore immobiliare. Una faccia giusta per i ruoli da violento gangster dal cuore buono in parte simile di aspetto al giapponese Riki Takeuchi. Wai Ka-fai scrive una sceneggiatura confusa, un ottimo soggetto ma sviluppato davvero male, come accennato, sembra di scorgere una storia noir molto intensa che anticipa i suoi futuri lavori per la Milkyway alla quale è stata incollata la parte centrale più ironica in mano ad Andy Lau e compagnia. Sicuro che la mano dello sceneggiatore si vede e alcune sequenze melodrammatiche sono glaciali e sapienti, assolutamente dure e commoventi.
Rimane assolutamente un film da vedere, comunque un’esperienza unica, un esempio inedito e indimenticabile di sperimentazione nel linguaggio filmico.