Choi Dong-hoon


Choi Dong-hoonRegista.

 

 

Già aiuto regista per Im Sang-soo, Choi (classe ’71) si fa notare per la sceneggiatura di un film tortuoso, avvincente, ricco di personaggi stilosi e colpi di scena, The Big Swindle. Ottiene di girarlo personalmente, conseguendo un successo che gli permetterà di realizzare un secondo lungometraggio, adattamento di un manhwa molto seguito, Tazza, un’altra storia a base di truffe con una particolare attenzione alle psicologie dei personaggi.

 

 

 


Asian Feast: Il taglio del dito è una prassi consolidata nel mondo della malavita organizzata orientale, il taglio della mano invece si vede meno. È una zione realmente praticata?

Choi Dong-hoon: Penso che il taglio di un braccio, rispetto al taglio di un dito, risulti più scioccante, è questo il motivo principale per cui l’ho mostrato. Ma è una pratica che viene utilizzata anche nella realtà.

AF: L’idea di trasporre un manhwa è stata una sua iniziativa o è partita dalla produzione?

CDH: All’inizio nessuno era contento dell’idea, perché il fumetto era molto lungo, quindi difficile da realizzare, alla fine però il produttore ha deciso di utilizzare l’idea.

AF: Il pubblico che seguiva il fumetto come ha accolto il film? La sceneggiatura lo ricalca o se ne discosta?

CDH: Fumetto e film iniziano allo stesso modo, poi però il film si evolve in tutt’altra direzione. Naturalmente gli amanti del fumetto non sono stati molto contenti, perché è cambiato moltissimo, però il pubblico, in generale, ha guardato il film considerando l’opera in sé, non confrontandolo con il fumetto, quindi è piaciuto molto.

AF: Lei personalmente è rimasto soddisfatto di come è stata resa la trasposizione dal copione al film?

CDH: La sceneggiatura l’ho scritta io. Ci sono stati aspetti che mi hanno dato molta soddisfazione, ma anche cose di cui non ero pienamente convinto. Se da un lato ero soddisfatto, dall’altro provavo un senso di critica verso me stesso, ogni giorno ero combattuto da un lato e dall’altro.

AF: Rispetto al suo precedente film, Big Swindle, c’è stato un cambiamento di temi e di intenti o ha cercato di mantenere una continuità?

CDH: Si può dire che entrambi i film appartengano a uno stesso filone, perché tutti e due parlano di cose umane, sono solo gli aspetti di questa umanità che cambiano, però la tematica di fondo è la stessa.

AF: Una cosa che salta all’occhio in Tajja è l’attenzione per i colori forti, come il giallo e il rosso. Hanno qualche significato particolare?

CDH: In Corea, di solito, non c’è facilità a mostrare i colori, ad esempio è difficile trovare un arredamento con colori particolarmente forti, quindi l’ho fatto apposta, proprio per mettere in risalto i colori.

AF: Il significato del nome del protagonista è “cigno”. Anche gli altri personaggi hanno questo genere di soprannomi?

CDH: C’è stato qualche errore nella traduzione in inglese. Gli altri giocatori d’azzardo hanno tutti un soprannome, ma nella traduzione in inglese usavano a volte il nome, a volte il soprannome, mentre in coreano viene usato solo il soprannome.

AF: Nella scena finale il protagonista si trova in un casinò occidentale. È lì per riguadagnare i soldi volati via dal treno?

CDH: Il protagonista è senz’altro un uomo perspicace, intelligente. Non ho voluto dare un significato speciale all’episodio, non esiste una ragione particolare per cui egli si trova lì.

AF: A un certo punto del film, Kim Hye-soo pronuncia la frase: “Sono una laureata del college femminile Ehwa! Non posso andare in prigione!”. Cosa significa?

CDH: È importante conoscere la cultura coreana in quel caso. Le donne laureatesi in quell’università appartengono all’alta società, sono quasi delle intoccabili. Lei inoltre, nel film, paga la polizia, però la fanno andare comunque in prigione, quindi pronuncia quella frase con presunzione, per rivendicare il suo status, il fatto di essere “qualcuno”.

AF: Una domanda specifica: qual è il film che viene proiettato quando i protagonisti vanno al cinema e di cui si sente solamente l’audio?

CDH: Comic homje, “Comic crime movie”, di Kim Sang-jin.

AF: Come mai ha scelto di ambientare il presente nel 1996?

CDH: Soprattutto in quel periodo, quel gioco di carte (hwatu) era molto popolare, tutti ci giocavano. Adesso non tanto, quindi era più adatto al film.

AF: A proposito della colonna sonora, come mai ha scelto di insistere così tanto sul pezzo popolare Pulnabi di Kim Sang-guk, presente sia nel karaoke che nella sigla di chiusura? Il testo ha a che fare con il film?

CDH: Volevo dare al film un’atmosfera d’altri tempi, e poi mi piace molto quella canzone. Parla di una persona che ha una cicatrice, quindi riprende certi temi del film.

AF: Lei ha lavorato con Park Chan-wook e con Im Sang-soo come attore. Come sono nate queste collaborazioni?

CDH: Con loro ho un rapporto d’amicizia, di scambio d’idee, spesso ci incontriamo per stare insieme, bere qualcosa, parlare dei libri che amiamo.

AF: Ecco perché compare in qualche cameo…

CDH: Ah sì! (Ride) Sono stato suo aiuto regista.

AF: Da quali film e registi è stato maggiormente influenzato?

CDH: Sono sempre stato molto impressionato da Sergio Leone, mi piace tutto dei suoi film, le musiche, il modo di dirigere, i temi che affronta. Mi piacciono anche i film di Bertolucci di un po’ di anni fa.
Tra i coreani ho imparato tanto soprattutto da Im Sang-soo; probabilmente è il regista che preferisco.

AF: Un’altra domanda sul film. Superare le due ore è abbastanza inusuale nel cinema coreano, per una questione di programmazione dei teatri. Ha incontrato problemi con la produzione?

CDH: No, non c’è stato nessun problema, anzi, io l’avrei fatto un po’ più breve, ma la produzione mi ha detto che se volevo farlo più lungo andava bene. È una cosa abbastanza sorprendente, in effetti.
Il pubblico coreano ha particolarmente apprezzato il film, perché nonostante la lunghezza non è affatto pesante, anzi è molto divertente, anche perché in coreano vengono usati molti termini slang che creano ilarità, aspetto che probabilmente nella traduzione si perde. Un po’ come nei film di Woody Allen, in cui i dialoghi divertono e tengono viva l’attenzione dello spettatore.

AF: I suoi progetti per il futuro?

CDH: Quando tornerò in Corea mi metterò subito a lavorare alla prossima sceneggiatura, poi vedremo.

AF: Si è trovato bene al Festival di Udine?

CDH: Sì, mi è piaciuto moltissimo sia il clima, sempre bello e solare, che le persone del festival, molto carine e anche il pubblico è stato molto caloroso. Sono molto contento.


Foto di Marco Tregambi: