La Deriva del Cinema di Arti Marziali


Deriva del cinema di arti marzialiHong Kong 2004 – Una svolta epocale?

Di una cosa ormai se ne sono accorti tutti; ad Hong Kong si fanno molti meno film di arti marziali rispetto al decennio precedente. Quello di cui si sono accorte meno persone è che è molto cambiato anche il “come” questo genere viene adottato.

Il 2004 è stato un anno fondamentale per razionalizzare e guardare questa crisi, filtrandola con maggiore evidenza attraverso dei generi di Hong Kong unici al mondo, il wuxiapian in particolare e il cinema delle coreografie in generale.

Cosa è accaduto? Una crisi del genere è ormai evidente. Si può provare a stilare una teoria che, diciamocelo subito senza prenderci in giro, ha un valore del tutto soggettivo e regge finchè non ne arriva un’altra a sostituirla, ieri come oggi, come è sempre accaduto con le teorie cinematografiche e con la fruibilità/restauro/riscoperta delle fonti.

Probabilmente un grosso colpo è arrivato dall’esterno. Se la Corea ha invaso cinematograficamente tutto l’estremo oriente, forse il colpo più pesante è però arrivato proprio dalla Thailandia e porta il nome di Ong Bak.

Improvvisamente l’orgogliosa popolazione di Hong Kong perdeva la propria unicità e trovava un nuovo Jackie Chan al di fuori del proprio paese (mentre il vero Jackie era negli USA a macchiare la propria carriera). Il fatto paradossale è che l’industria onnivora di Hong Kong in un attimo decise di seguire il flusso e, evento epocale, iniziò a sedurre altre forme di arti marziali esterne al kung fu, classica marca stilistica del cinema dell’ex colonia. I due esempi più clamorosi sono Xanda di Marco Mak e Star Runner di Daniel Lee. Questa tendenza però non si ferma qui e continua, raggiungendo il climax proprio nel 2004. Per diverse motivazioni, nuove arti marziali invadono Hong Kong. Il Judo, nel bel Throwdown di Johnnie To, sentito omaggio all’Akira Kurosawa delle origini e ricerca stilistica di nuove forme/immaginari/etiche da mostrare sullo schermo. Il wrestling invece viene adottato in Osaka Wrestling Restaurant, commedia scritta all’occidentale che fa della corrispondenza Giappone/Hong Kong il fulcro della narrazione. Ed infine, di nuovo, Ong Bak continua ad essere citato, spesso in modalità irriverente, come in una breve sequenza di Three of a Kind (il film ritorno di Michael Hui come attore).

Altro elemento da sottolineare è la messa in discussione del wire work e della sua classica funzione. La pratica di imbracare con cavi gli attori per fargli compiere mirabolanti acrobazie diviene elemento imbarazzante da risolvere in qualche modo. Si tende quindi o ad eliminare il wirework o ad esplicitarlo o a renderlo visibile. Diviene evidente in White Dragon, nei film di Zhang Yimou e in Kung Fu Hustle, e in ognuno dei tre casi con un significato ben preciso (postmoderno il primo, spettacolare il secondo, filologico il terzo). Quando è visibile è una sorta di rappresentazione simbolica, una scusa o nasconde una metafora; in New Police Story dei corpi sono legati al soffitto tramite dei cavi che, una volta tagliati fanno piombare a terra i personaggi con esiti tragici. In Silver Hawk dei personaggi utilizzano dei cavi attaccati al soffitto per combattere con maggiore capacità atletica (lo stesso senso che ha sempre avuto il wirework ma stavolta palesato). E sul finale di Three of a Kind i guerrieri volano appesi a cavi evidentissimi, non fosse per il fatto che ci troviamo in un parco a tema.

Altra riflessione metaforica di profonda valenza sociale è l’improvviso autoesilio dei maestri. Se un tempo essi vivevano in mezzo alle altre persone e non perdevano occasione di mettere a frutto gli anni di allenamenti (ricordate le 36 camere di Shaolin?) e di mostrare le proprie abilità, ora sono sempre più restii ad agire. Ne è un perfetto paradigma Kung Fu Hustle, profonda dichiarazione d’amore all’attività marziale come componente ricreativa, sociale, pregna d’onore (l’amichevole scontro tra i tre maestri che li rivela gli uni agli altri). La lotta porta solo problemi e crea lutti e tragedie irreversibili tant’è che una volta innescato il meccanismo della lotta, rimangono solo tre possibilità: o continuare per quella strada o fuggire in esilio o trovarsi di fronte alla morte e al totale annientamento comunicativo (che avviene ben 2 volte in Kung Fu Hustle). Quindi o battersi fino alla fine (e perire?) o astenersi dalla responsabilità del coinvolgimento nelle arti (marziali). Se ne stanno rintanati nel peggiore villaggetto di periferia gli eroi di Kung Fu Hustle, mentre il villain si è lasciato rinchiudere in un manicomio. Nascondono le proprie abilità anche i combattenti di Throwdown, persi dietro ad attività sociali “normali”, chiusi nei pub, nei locali notturni o nelle proprie palestre. Affoga le sue esperienze nell’alcool Jackie Chan, restio e impossibilitato alla lotta. C’è quasi un timore/vergogna a combattere.

Al contempo diviene sempre più netta la presenza di attori/cantanti/modelli rispetto agli attori/atleti del ventennio precedente, con relativo calo qualitativo delle sequenze action e possibilità di esibizione marziale. Oltretutto a questo si può sommare la già stracitata fuga di maestranze, corpi e cervelli negli States ed è evidente che persone come Jet Li, le “7 piccole fortune”, Jackie Chan, Sammo Hung, e tutti gli altri non nascono ogni giorno. Inoltre sono passate le generazioni. Non tutti i ragazzini di oggi hanno gli stessi gusti di quelli del passato. Stando alle interviste raccolte all’uscita di New Police Story (il grande ritorno di Jackie Chan) le nuove generazioni non gradiscono più il personaggio Jackie, visto come sinonimo di un passato, non al passo con i tempi e reputano ormai noiose e di routine le sue performance. Infine, non per ultima, la globalizzazione tecnologica, l’arma in cui è più violentemente potente Hollywood. Raggiunti alcuni standard tecnologici e qualitativi chi non li possiede è “out”. E dire che inizialmente Hong Kong aveva fatto un ingresso prepotente ma ben assimilato nel mondo del 3D con il boom di film come The Storm Riders e A Man Called Hero fino a che…

Fino a che è arrivato Hero di Zhang Yimou.

All’improvviso il pubblico cinese trova trasfigurato uno dei generi classici della propria cinematografia, forse il più puramente commerciale, in asettica visione autoriale. Il budget stratosferico riproduce un film composto di blocchi appartenenti ad un passato filmico ma ripuliti e patinatizzati dallo sfarzo del progetto, il tutto condito da una visione autoriale zen di forte marcatura export. Due piccioni con una fava, un pubblico locale fortemente nazionalista in questo caso ha finalmente un autore da poter esportare, il pubblico occidentale si ritrova un film action robusto da vedere potendo anche vantare una sorta di intellettualismo della visione dovuto alla marca autoriale del prodotto. Il film è un campione di incassi e mette in profonda crisi l’intero cinema di arti marziali locale. La fregatura è evidente, alzare gli standard qualitativi in modo che possano sopravvivere ed essere venduti solo alcuni prodotti che rientrano in un certo limite di qualità visiva. Una volta settato lo standard il pubblico pagando il biglietto non vuole vedere un prodotto che appaia qualitativamente più basso del film/stereotipo. La rivoluzione del genere degli anni 80 aveva settato come limite la fantasia e il talento degli atleti/attori/registi/coreografi ed il genere era fiorito. Ora è il budget e la tecnologia a dominare e questo permette solo a pochi noti di poter produrre film al passo coi tempi e ad ancor meno persone di rischiare in progetti non sicuri. Nulla da dire su Hero, un film  perfetto. Ma secondo chi scrive Hero è anche la prova assoluta che la perfezione cercata per ben vent’anni e tanto decantata, una volta raggiunta nel nuovo millennio con l’ausilio del 3D ha dimostrato tutti i propri limiti e la sua reale bruttura. Un film che fa male Hero, così come il seguente, orribile, The House of the Flying Daggers. Le reazioni di uno spettatore di fronte ai due film possono essere tendenzialmente tre.

-Il film lo lascia indifferente, spettatore casuale capitato lì per caso. Nulla cambia nella sua vita (questa non fa al caso nostro).

-Adora il film, cerca così di trovare altri wuxia del genere all’interno del cinema di Hong Kong e non li troverà perchè (fortunatamente) non esistono. Abbandona la ricerca e ritorna ai film statunitensi.

-Odia il film con tutte le forze e non vorrà più vedere nulla del cinema di Hong Kong etichettato come palloso e fatto di gente che vola.

Nessuno dei tre ci sembra un piacevole miraggio.

Il paragone che più sembra adatto per i due film è quello con i CD di new age che si trovano al supermercato.

Entrambi i film di Zhang Yimou sono freddi, patinati, asettici, manca ogni forma di fisicità il che rimanda il cinema indietro di almeno 50 anni quando i film erano fatti di pose e movimenti senza un vero contrasto fisico.

The House of the Flying Daggers invece è volutamente un film che guarda al passato (addirittura a King Hu) ma che se fosse passato nei cinema all’epoca sarebbe stato visto da praticamente nessuno, scomparendo tra i gioielli di Chang Cheh, King Hu, Chor Yuen, Liu Chia-liang.

La reazione del cinema di Hong Kong è stata classica, spontanea: l’ironia.

Trovatasi improvvisamente orfana di un genere, visto un pò come un parente antipatico da trascinarsi dietro in gita, il cinema di Hong Kong ha cercato di reagire con una visione del tutto ironica.

In Three of a Kind, Michael Hui è uno scrittore di romanzi Wuxia, il nuovo Wilson Yip, White Dragon, da una visione comicamente postmoderna del genere, stessa cosa per la versione postmoderna di Protége de la Rose Noire, vero collage di un passato cinematografico (che fa un pò la coppia con il Fantasia di Wai Ka-fai).

Per un film serio ma tutto sommato poco credibile come Silver Hawk ecco di nuovo l’ironia di Elixir of Love (con tanto di bullet time), l’orribile The Twins Effect II, zuccheroso e ludico. Su tutto questo panorama sono aumentati esponenzialmente i noir crepuscolari, classica reazione alla trilogia di Infernal Affairs e ai gioiellini della Milkyway di Johnnie To.

Due film limite segnano questi 12 mesi, uno uscito nel 2003 e uno nel 2005.

Il bellissimo Running on Karma di Johnnie To mostra una strada diversa di approccio alle arti marziali con le sue belle coreografie anacronistiche, un ritorno al passato consapevole che, come vedremo, verrà seguito con attenzione. Mentre fa riflettere uno dei due film usciti per primi nel 2005 ad Hong Kong, DragonBlade, un wuxia interamente realizzato in 3D.

La reazione più forte a questa crisi sembra venire dai maestri, da coloro che appartengono alla vecchia scuola e che sembrano voler combattere per far valere il VERO cinema di Hong Kong. Johnnie To e Wai Ka-fai, con un certo successo ormai da tempo guardano al passato, lo assimilano, e ne fanno tesoro per produrre nuovi film, spesso geniali.

Lo stesso Jackie Chan, tornato ad Hong Kong per realizzare un nuovo capitolo di una sua fortunata saga degli anni ’80, Police Story, ha creato un film molto forte rimettendosi del tutto in gioco. Ed è già il secondo testamento spirituale che Jackie firma; in New Police Story sembra passare il testimone alla giovani generazioni (che comunque mette in profonda discussione) e in Twins Effect II direttamente a suo figlio. Magari New Police Story non è stato il successo sperato ma ha mostrato una reazione, non isolata; si perchè il 2004 si è chiuso con il nuovo capolavoro di Stephen Chiau, Kung Fu Hustle, un film che le cose non le manda a dire sottilmente ma le urla per risvegliare le coscienze dal grosso fraintendimento che sono stai i film di Zhang Yimou. Con una finezza esemplare, una filologia precisa e competente e una regia sfarzosa ma sempre sotto controllo, una consapevolezza dei tempi filmici degni di un maestro, ha diretto il miglior film di arti marziali degli ultimi cinque anni. Nel frattempo Tsui Hark ha firmato il suo grande ritorno, The Seven Swords, un nuovo capitolo radicalmente fondamentale del cinema di arti marziali, riportando la fisicità evaporata ad un rapporto preponderante dei corpi, reinserendo la gravità nelle lotte grazie all’ausilio di un ritrovato coreografo come Liu Chia-liang.

Sarà lui a salvare il cinema di Hong Kong? O forse i maialini MC Dull, pronti nel terzo capitolo della loro serie a emigrare al tempio Wu Tang?

Nota:

Per tutti coloro che non conoscono il genere, che magari dopo questo articolo si sono incuriositi e vogliono rimettersi in gioco, di seguito proponiamo un lista di film, tutti wuxiapian per poter scoprire e riscoprire come realmente questo genere è stato. Non si tratta di una lista ragionata, tutt’altro, siamo andati a caldo seguendo passioni e ricordi. Magari mancano titoli fondamentali, ma già questi sono alcuni titoli d’oro, non tutti capolavori, ma molto vari e ognuno rappresentativo di qualcosa. Quasi tutti li trovate in vendita in vari siti internet, alcuni (pochi) addirittura esistono in italiano. Non avete scuse. Una volta impazziti, ci leggiamo sul forum.

-The Blade di Tsui Hark (anche in italiano)
-Moon Warriors di Sammo Hung
-Blade of Fury di Sammo Hung
-Swordsman II di Ching Siu-tung
-New Dragon Gate Inn di Raymond Lee
-Duel to the Death di Ching Siu-tung
-Ashes of Time di Wong Kar-wai
-The Fate of Lee Khan di King Hu
-Come Drink With Me di King Hu
-Forbidden City Cop di Vincent Kok e Stephen Chiau
-La Mano Sinistra della Violenza di Chang Cheh
-La Sfida degli Invincibili Campioni di Chang Cheh
-Killer Clans di Chor Yuen
-The Three Swordsman di Taylor Wong
-Butterfly & Sword di Michael Mak
-The Magic Blade di Chor Yuen